
(articolo redatto da Pia Pecci)
Per chi non lo sapesse o non fosse particolarmente appassionato di storia contemporanea, oggi 30 aprile 2023 è l’anniversario del rilascio al pubblico del codice sorgente del World Wide Web. Ripercorriamo insieme le tappe che hanno portato alla nascita del world wide web e alla sua evoluzione.
La storia del World Wibe Web
Il world wide web, la rete di ampiezza mondiale costituisce ormai un elemento della nostra vita quotidiana al punto che vivere senza di essa sarebbe pressoché impossibile. Fermiamoci per un minuto solo a pensare alla moltitudine di servizi offerti dal web, di cui non possiamo decisamente fare a meno.
Ci documentiamo grazie a contenuti che cerchiamo attraverso i motori di ricerca e grazie ad archivi resi disponibili online. Condividiamo e riceviamo informazioni e comunicazioni attraverso le email, comprese quelle ufficiali – l’acronimo PEC vi dice qualcosa? Se non utilizziamo le email per comunicare, usiamo social network e piattaforme di instant messaging, quali Whatsapp, Viber, Telegram, iMessage, Snapchat… Ci procuriamo tutti i software e le app necessari a svolgere il nostro lavoro e le nostre attività quotidiane. Compriamo tutto su Amazon, sugli ecommerce o anche attraverso i marketplace dei social network. E come dimenticare i servizi di tipo streaming? Dai podcast su Spotify alle serate di binge watching – winter edition, in cui Netflix e piumone non possono mancare, passando per la fruizione di contenuti su Youtube.

L’altroieri
Sul piano teorico, quello del world wide web è un vero e proprio concetto che affonda le proprie radici nella prima metà del secolo scorso, a partire dal racconto fantascientifico The machine stops dell’inglese E.M. Foster, su cui sono state fatte diverse riflessioni durante il lockdown del 2020.
Attraverso la sua professione di scrittore, Foster, ha trattato per quasi cinquant’anni molteplici tematiche, tra le quali rientrano la stratificazione sociale, l’imperialismo e l’omosessualità. Non manca, però, l’idea di un futuro distopico, raccontato proprio attraverso The machine stops.
Nel racconto, la comunicazione avviene attraverso una sorta di macchina che permette la messaggistica istantanea e le videoconferenze e con cui gli umani, trasferitisi su un altro pianeta, vivono condividendo le loro idee e ciò che è considerano conoscenza. La Macchina che controlla l’umanità aliena diventa una sorta di entità da venerare e gli uomini dimenticano di essere stati loro a crearla. Pertanto, quando il sistema incaricato di riparare agli errori che commette la Macchina fallisce, gli uomini sottovalutano la cosa, ritenendola superflua poiché la Macchina è perfetta, in quanto considerata divina. Uno dei personaggi principal, intuendo l’imminente rottura della Macchina, comunica il seguente messaggio in codice: the machine stops.
Sul piano più tecnico, dobbiamo focalizzarci sul concetto di ipertesto: esatto, quello che chiamiamo collegamento ipertestuale o link. Per un attimo, non pensiamo a quello che per noi è oggi un collegamento ipertestuale e torniamo indietro agli anni ’30.
Prima dei computer moderni, quelli dotati di display – il primo è stato l’Apple I – c’erano i calcolatori analogici e uno scienziato statunitense, Vannevar Bush. Osservando – e soprattutto vivendo – il rapido progresso scientifico di quegli anni, Bush ideò il Memex – contrazione dei termini Memory ed Expansion –, un calcolatore analogico dotato di un sistema di archiviazione, in cui l’utente avrebbe registrato documenti, libri, comunicazioni e che non avrebbe funzionato meccanicamente come gli altri, bensì come un dispositivo di tipo elettro-ottico, in quanto avrebbe dovuto essere dotato di microfilm. Non fu mai realizzato, anche se il suo funzionamento fu descritto nel 1945 con il celebre saggio As you may think come una scrivania dotata di schermi traslucidi, una tastiera, leve e pulsanti. Non vi fa pensare a nulla?
Ricordiamo che, prima dell’ipertesto, ogni informazione che si voleva reperire in un database, andava cercata manualmente e senza parole chiave; pertanto, attraverso l’utilizzo di collegamenti ipertestuali, il raggiungimento di tale obiettivo e stato significativamente velocizzato con l’ipertesto.
ieri
Facciamo un salto temporale degno dei migliori film biografici di Hollywood spostiamoci verso un periodo più recente, quello che va dagli anni ’80 all’inizio dei ’90. C’è un nome da tenere a mente: Tim Barners-Lee.
Quando ci si trova ad analizzare o anche solo a raccontare la storia, è fondamentale sradicare la concezione che abbiamo di uno o più elementi, al fine di comprendere la storia e gli step che ci hanno portati fin qui. Il nostro elemento in questione è il web: l’internet di oggi non può essere quello di trent’anni o quarant’anni fa.
Tornando a Barners-Lee, ci troviamo in Svizzera, al CERN. Gli esperimenti con l’ipertesto, che potremmo definire il vecchio internet, sono iniziati. Gli esperimenti sugli ipertesti iniziarono con Enquire, un database sviluppato dallo stesso Barners-Lee, fatto di pagine di dati e ognuna di queste doveva essere collegata a un’altra che esistesse già.
Come è noto, il web è fatto di protocolli; il più famoso è HTTP. Prima di quest’ultimo, però, c’erano soltanto il TCP e l’IP – rispettivamente Transmission Control Protocol e Internet Protocol – che a partire dalla seconda metà degli anni ’80 furono installati su alcuni computer del CERN, con lo scopo di facilitare il lavoro di condivisione dei dati da parte dei fisici.
Habemus internet, ma non è per tutti.
Siamo arrivati al 1989, che vede la proposta di Barners-Lee di creare un database ipertestuale ampio e basato sui link. Il progetto si fece, usando una macchina targata Next – azienda fondata da Steve Jobs. Dietro ogni impresa o idea di successo c’è sempre un fallimento: conferma questa teoria il fatto che nel 1990 nessuno sembrò apprezzare pienamente l’idea di un database basato su link, ma Barners-Lee non si diede per vinto e, entro la fine di quell’anno, realizzò tutti gli strumenti necessari a implementare il web: creò il sopracitato protocollo HTTP, il linguaggio HTML, un server, un web server e un browser web – denominato World Wide Web. Sorpresi? –, spiegando il tutto attraverso delle pagine web.
Tralasciando le successive fasi, particolarmente tecniche, arriviamo al 1993: il CERN rilascia il codice sorgente, rendendolo di dominio pubblico e portando così a un rapido sviluppo di questa tecnologia.

Oggi
Se ci trovassimo in una serie TV, questo paragrafo sarebbe la stagione finale, il classico episodio di riepilogo dopo gli eventi centrali. Il web cresceva in maniera esponenziale, arrivando presto a contare il milione di utenti, che diventarono un miliardo nei primi anni 2000. Browser e motori di ricerca nascevano come funghi. Nel 1995 fu rilasciato uno dei più famosi browser: Internet Explorer, che non è più supportato dallo scorso giugno.

Nel 1997 fu rilasciato il più famoso motore di ricerca, Google, e nel 2008 venne rilasciato l’omonimo browser, Google Chrome.

I siti web sono passati dall’essere statici all’essere dinamici, diventando veloci e permettendoci anche di fare la spesa rimanendo comodamente in pigiama sul nostro divano, un concetto decisamente futuristico nel ventesimo secolo.
Il web è diventato veloce, anzi velocissimo, al punto da spazientirci se la navigazione da una pagina web all’altra impiega più di tre secondi.
I siti dagli anni ’90 ai primi anni 2000 erano spesso visivamente improponibili, con colori decisamente troppo sgargianti per la vista umana, migliaia di gif spesso glitterate e trash e senza un vero filo logico.


Studi neurologici e psicologici hanno portato alla nascita di discipline come lo user experience design e lo user interface design, che hanno fornito dei veri e propri standard per i siti web – e anche per software e applicazioni – che sono in continua evoluzione, in modo da rendere gradevole la fruizione di servizi web e facilitare le operazioni degli utenti.
Per quanto riguarda il linguaggio, l’Hyper Text Markup Language è sempre alla base di un sito web, ma adesso è affiancato da linguaggi di programmazione veri e propri come il php e la maggior parte dei siti è creata su CMS – Content Management System – e WordPress ne costituisce l’esempio più famoso. WordPress, a sua volta, si accompagna spesso a builder come Elementor, ed è disponibile anche in versione ecommerce, rimanendo la scelta più comune per chi vuole aprire un’attività di vendita online o ha intenzione di estenderla, nonostante siano nati competitor specifici come Wix, Prestashop, Magento e Shopify.
E Tu?
Qual è l’azione che compi di più sul web? Quali sono i siti che visiti di più? Come hai vissuto l’evoluzione del web fino a oggi? Condividi con noi un pezzo della tua storia sul www.
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